SPIGOLATURE SULLA RASATURA TRADIZIONALE PT. 2 – DI COPIE E DI TRIBUTI

Il diritto d’autore, ah… 

Il copyright.

Il ‘diritto morale’ – o materiale? – di replicare un rasoio, diritto da auto-intestarsi solo perché della stessa nazionalità del produttore che, decenni addietro, ideò e creò l’originale.

Si potrebbe continuare, ma fermiamoci qui. E da qui ripartiamo.

Premessa necessaria e sufficiente: taceremo i nomi, per carità di patria. In primis, perché non hanno importanza, essendo il ragionamento di valenza universale in luogo e tempo; in secundis, perché non abbiamo intenzione di attaccare marchi e/o produttori, che, quanto a pubblicità, cagionano di per sé, col loro agire, il successo o il fallimento della loro strategia di marketing.

La recente invasione del mercato da parte di rasoi di provenienza cinese, evidenti copie di famosi rasoi europei attualmente in commercio, ha scatenato, com’è prevedibile, una baraonda. Anche giustificata, visto e considerato che si tratta di copie di prodotti che sono acquistabili in versione originale dal loro produttore, quindi in violazione, laddove ancora persistano, delle leggi che regolano il diritto d’autore.

Ma, quando la polemica si sposta sulla riproduzione di rasoi vintage, fuori produzione magari da settanta, ottant’anni e più, con l’azienda produttrice originale magari fallita da decenni e con i brevetti nel frattempo evaporati, la questione si fa un pelino più complicata. E interessante.

Come giudicare le aziende che hanno, come parte del loro business, la prerogativa di dedicare parte consistente della propria produzione alla realizzazione di copie, perfette o fortemente ispirate di rasoi d’epoca che hanno fatto la storia della rasatura?

A leggere, qua e là, i commenti che infestano i gruppi di appassionati di rasatura tradizionale, ci si accorge immediatamente che le opinioni degli utenti sono estremamente polarizzate tra chi schifa simili operazioni – nella maggioranza dei casi ammettendo tranquillamente di non aver mai provato una di queste copie – e chi, da acquirente, le approva in pieno.

Si potrebbe liquidare la questione in un battibaleno, con un esempio paradigmatico: vi piace il Bohin francese? Siete innamorati delle sue forme prosperose, della sua testa esagerata ma elegante, e vorreste avere l’occasione di provarlo sulla vostra pelle?

Opzione facile: spendete un centone e comprate la riproduzione in acciaio fatta dalla nota casa cinese.

Opzione difficile: vi mettete in cerca del pezzo originale. Che è introvabile, può costare centinaia di euro anche in cattive condizioni (sempre che qualche possessore sia disposto a vendervelo). Quindi dovete mettere in conto le spese del restauro, sempre se conoscete qualcuno che abbia la capacità tecnica di eseguirlo. Con molta fortuna e una barca di soldi spesi, avete annoverato un gioiello nella vostra collezione privata – e, se superate la paura di rovinarlo, magari lo userete pure qualche rara volta, togliendolo con reverenza dal suo bello scranno nella vetrina.

Ma quanti possono spendere centinaia di euro e perdere una gran quantità di tempo in un’operazione simile? Molto pochi, direi.

Il senso della copia (quando è fatta a regola d’arte, da aziende serie), effettuata sovente con macchinari sofisticati e con materiali all’avanguardia per resistenza e durata come l’acciaio e il titanio, non è quello di moltiplicare la produzione di paccottiglia per aumentare il fatturato dell’azienda produttrice, ma è di altra natura. Una natura che è duplice: realizzare un tributo ad un oggetto che, grazie alla genialità di chi lo ideò e creò a suo tempo, con la sua fama ha saputo superare i decenni; inoltre, il renderlo nuovamente fruibile a tutti, ad un prezzo competitivo.

Tutto questo ragionamento vale a prescindere dalla nazionalità di chi si accinge all’opera di ‘clonazione’.

Questa postilla, nient’affatto banale, mi conduce alla fine del ragionamento. Ed è una conclusione amara.

Cari italiani (ma potrei dire francesi, spagnoli, tedeschi, ad libitum, ad abundantiam), non usate il patriottismo qualunquista come pretesto per criticare chi produce repliche di rasoi partoriti dall’estro di qualche italiano – o francese, o spagnolo, o tedesco, ecc. – decenni orsono. Perché non fa onore a noi stessi e non rende giustizia del genio dei nostri predecessori.

Smettiamola di turlupinarci a vicenda, continuando a millantare come ‘sintomi di qualità artigianale’ i segni di lavorazione nelle nostre testine, o l’imperfezione di allineamento della lametta a causa della scarsa precisione delle macchine nella realizzazione delle stesse.

Smettiamo di incolpare gli altri se, a causa del nostro declino economico e sociale e della perdita di know how industriale, i nostri prodotti, a parità di qualità, costano il doppio o il triplo di quelli americani o cinesi.

Smettiamo di esaltare come ‘Tributi’ le nostre operazioni commerciali di rifacimento di vecchi rasoi e di definire, parimenti, come spregevoli operazioni di copiatura le stesse operazioni compiute dagli altri, che costano magari la metà perché, in Cina, in America, in India o in Russia, l’acciaio costa dieci volte meno che da noi in Italia, dove non esiste più un altoforno acceso.

Smettiamo, evangelicamente parlando, di additare il moscerino nell’occhio altrui ignorando la trave dentro il nostro.

La sventura che ci siamo cagionati da soli, non saranno gli altri a scacciarla.

O a giustificarla.

 


 

About the Author: Daniele Pietrini
Appassionato di rasatura tradizionale dal 2013, sono alla costante ricerca di nuove fragranze e sensazioni, convinto del fatto che il tempo speso per sé stessi e per la propria cura non sia mai sprecato. La tradizione nella rasatura è ormai divenuta per me una componente irrinunciabile, fulcro di una ritualità che, ogni settimana, mi concede momenti di piacere e relax per il corpo e per i sensi.

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